All’Anteo una storia di leonesse che mette il buon umore

All’Anteo una storia di leonesse che mette il buon umore All’Anteo una storia di leonesse che mette il buon umore

«Io sono felice. E perché non dovrei esserlo? La vita è bellissima, è meravigliosa».

Ecco, quando Siham ha pronunciato queste parole, con il suo sorriso largo accompagnato dal gesto ampio delle lunghe braccia, non sono più riuscita a trattenere le lacrime.

Quella di Siham non è stata una vita facile e nemmeno adesso lo è. Lei stessa lo racconta, anche se non è immediato percepire la sofferenza che i suoi modi energici, un po’ eccessivi talvolta, nascondono. È arrivata in Italia dal Marocco 17 anni fa, sperando di trovare un lavoro dignitoso e, soprattutto, un Paese dove poter esprimere in libertà il suo «femminismo inconsapevole», come lo ha definito una delle due autrici del documentario in cui compare Siham. Perché in Marocco le dicevano che la sua testa era troppo libera («Uomo e donna sono uguali, capito? Uguali» ripete davanti alla telecamera), non andava bene per quel Paese e avrebbe fatto meglio ad andarsene altrove.

Ma in Italia, ad accoglierla, ha trovato all’inizio solo «persone di merda», che la sfruttavano pagandola pochissimo, come donna delle pulizie. Siham però ha tenuto duro, ha mandato giù tutte le umiliazioni, ha cresciuto sua figlia e… sì: quest’anno è riuscita persino a farsi una vacanza a Venezia. E le brillano gli occhi mentre lo racconta (brillano anche a me, però dalla commozione!).

Siham ha un segreto per darsi forza, un segreto che condivide con le altre protagoniste del bellissimo documentario di Isabel Achával e Chiara Bondì, prodotto da Nanni Moretti, «Las Leonas», presentato all’ultimo Festival di Venezia e ora in programmazione all’Anteo (non so fino a quando, quindi ti consiglio di andarlo a vedere appena puoi!).

Questo segreto è il calcio. Tutte le domeniche, assieme a Elvira, Joan, Bea, Melisa, Vania e tante altre, si trova nel campo di Vis Aurelia, nella periferia di Roma per sfidare altre squadre femminili, tutte o quasi formate da donne immigrate che, in gran parte, dal lunedì al venerdì si prendono cura delle nostre case, dei nostri anziani o dei nostri bambini. Un lavoro duro, sottopagato, che non lascia certo loro il tempo o i soldi per allenarsi, seguire una dieta bilanciata o farsi medicare dagli eventuali infortuni.

Eppure, loro sono sempre lì, tutte le domeniche pomeriggio, a rincorrere un pallone e una vittoria che, alla fine, arriverà per… beh: questo lo lascio scoprire a te.

«La Leonas» parla di donne reali, che si presentano con i loro nomi e si lasciano riprendere (non tutte, ovviamente) nella loro quotidianità. Arrivano soprattutto dal Sudamerica, ma anche dal Nord Africa, da Capoverde, dalla Moldavia. Dapprima diffidenti nei confronti delle due registe («Ma perché vi interessa la mia storia? Che cosa c’è di interessante in quello che faccio?», chiedevano), un po’ alla volta si sono aperte e le hanno accolte tra loro.

Mi ha commossa, «Las Leonas», ma mi ha anche fatto ridere un sacco. Per la sagacia disarmante di quelle parole semplici, un po’ tranchant ma perfette, con cui queste leonesse parlano della vita, dell’amore, dei figli, dei genitori, dei parenti lontani, della difficoltà di integrarsi in un Paese in cui restano invisibili, spesso senza permesso di soggiorno e con stipendi da fame, generalmente pagati in nero.

La loro vitalità, la loro forza nel fare i conti con un passato spesso difficilissimo e un presente di fronte al quale io non resisterei più di due giorni, sono travolgenti e – spero a lungo – contagiose. Vorrei avere io quella energia, quell’allegria, quella capacità di essere dure e insieme tenere, fragili e generose.

Gli uomini sono quasi assenti, in questa storia di gioiose combattenti, per lo più evocati in ricordi in cui non ci fanno una gran figura. Ma non è un film di donne per le donne. È un film per tutte e tutti. Che tocca corde profonde, fa riflettere ma alla fine, credimi, uscirai dalla sala con buon umore che sarà difficile staccarti di dosso.

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