L’arte che abbatte i muri. Dipingendoli

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Il primo pensiero va all’odore di quelle bombolette spray, che avevamo comprato di nascosto dai nostri genitori per andare a disegnare dei graffiti su uno dei tanti bunker abbandonati nella pineta di San Nicolò, al Lido di Venezia.

Ricordo perfettamente l’emozione di quel pomeriggio d’inverno per un piccolo gesto trasgressivo che allora, a 14 anni, ci sembrava avere un significato enorme. Noi tre, le nostre biciclette – rigorosamente da uomo perché ci piacevano così, con il telaio, la sella e le ruote troppo alti per noi – e gli zaini pieni di bombolette colorate.

Noi tre e la nostra missione da compiere: abbellire quelle rovine ormai in gran parte coperte dai rovi, testimonianza di una delle cose che odiavamo di più al mondo, la guerra. Senza farci vedere da nessuno, ovviamente, perché non eravamo certo autorizzate a imbrattare una struttura del demanio, sebbene abbandonata e fatiscente.

Quei disegni – degli scarabocchi, diciamolo pure – sono spariti rapidamente dalle pareti del bunker, sbiaditi dal sole e inghiottiti dalla vegetazione, ma quel pomeriggio di pseudo protesta adolescenziale rimane il primo ricordo che ho della mia attrazione verso forme d’arte che avrei scoperto negli anni a venire per il loro valore, in parallelo con il loro diffondersi nelle città e il loro progressivo sdoganamento da parte della cultura cosiddetta alta: il muralismo e la street art.

Un’attrazione che a Milano ha trovato terreno fertile per alimentarsi. Certo, Milano non è New York né Londra, non è San Paolo né Cape Town. Ma si difende piuttosto bene, con tanti quartieri in cui artisti italiani e internazionali hanno dipinto le loro opere sui muri degli edifici, spesso chiamati a dare il loro contributo per la riqualificazione di aree degradate o periferiche. In alcuni casi, si tratta di murales pubblicitari commissionati da aziende, più o meno riusciti a seconda non solo della loro qualità estetica, ma anche (forse soprattutto) della capacità delle autrici o autori di mantenere al centro del proprio lavoro il dialogo con il contesto, urbanistico e sociale.

Perché questo è uno degli aspetti centrali di questa forma d’arte, il suo inserirsi in un ambiente architettonico e umano da cui non può prescindere. L’artista, ricevuto il tema o l’incarico, prepara ovviamente il suo progetto a tavolino, ma poi dovrà inevitabilmente adattarlo alla situazione che trova, alle esigenze delle persone che vivono quel luogo. Non solo:

il suo lavoro sarà condizionato da fattori esterni come il sole o la pioggia, il caldo o il freddo. Un po’ come la nostra pratica yoga, insomma, che ci insegna a stare con quello che c’è in un determinato momento e si adegua di conseguenza.

C’è un’altra caratteristica del muralismo e della street art in generale che mi ricorda la pratica yoga. Le opere realizzate su muri esterni, pubblici, sono per antonomasia transitorie, temporanee. Per quanto resistenti e innovative siano le vernici, infatti, non potranno mai contrastare l’usura del tempo e degli agenti atmosferici – proprio com’è accaduto ai miei scarabocchi adolescenziali. Inoltre, il continuo evolversi degli spazi urbani porta talora a nascondere i murales alla vista delle persone, perché magari vengono costruiti altri edifici davanti, oppure perché vengono coperti da altri murales o da cartelloni pubblicitari.

«Il bello di quest’arte è che vive in movimento e cambia assieme ai quartieri e alle persone che lo abitano», ci racconta Alessandro Etsom, giovane street artist di origini bergamasche, che ha realizzato decine di opere in tutto il mondo, tra cui molte a Milano. «Non sempre è facile per un artista mettere da parte l’ego, ma chi fa questo mestiere è consapevole che, una volta realizzata, la sua opera appartiene alla comunità, non a lui o a lei». Deve, insomma, lasciar andare la sua creatura. Un esercizio di non attaccamento degno di uno yogi! Ecco perché questo mese ho deciso di parlarti di muralismo e street art.

A mettere in moto tutte queste riflessioni è stata una mostra, piccola ma ricca di spunti, allestita al Mudec fino al prossimo 29 giugno: «Invasion. Dal muralismo alla Street Art». Una mostra in cui sono esposte le opere “site specific” di dieci artisti internazionali, chiamati a interpretare il tema del viaggio sulle pareti del museo. La mostra è aperta da una sezione storica, che ripercorre l’evoluzione del muralismo nel XX secolo, ed è chiusa da una mappa (dichiaratamente incompleta e in divenire) della street art a Milano, che mi ha fatto venire voglia di seguirne tutte le tappe.

Per orientarmi e tracciare un piccolo itinerario, ho chiesto aiuto ad Alessandro Etsom e qui ti propongo il percorso d’autore costruito assieme a lui.

Prima tappa: via Adolfo Costantini 26, nel quartiere Gallaratese, dove Shepard Fairey, in arte Obey (una vera istituzione nella street art a livello mondiale) ha realizzato il suo primo murale in Italia, un inno alla pace universale, intitolato «Tear Flame Peace». Un enorme dipinto (di 34 metri per 12) su cui campeggia la parola «Peace» e che fa parte del più ampio progetto di riqualificazione urbana dell’area. Area che, peraltro, sta diventando una sorta di museo a cielo aperto e che dunque vale la pena perlustrare a caccia di altri murales.

Seconda tappa: via Giovanni Viotti 13, a Lambrate. Qui troviamo un murale di grande impatto visivo, e significativo anche per l’innovazione tecnologica che a suo tempo aveva introdotto: «Anthropoceano», il secondo grande murale milanese di Federico Massa, in arte Iena Cruz. L’opera, di circa 300 metri quadrati, racconta l’impatto dell’uomo sull’ecosistema dei mari e affronta il tema della sostenibilità anche in modo concreto, ovvero utilizzando (primo caso in Italia) una speciale vernice “mangia-smog”, capace cioè di ridurre di quasi il 90% il biossido di azoto presente nell’aria.

Terza tappa: via Brembo angolo via Benaco, nella zona di Lodi. Qui si trova «CuciMilano», il murale realizzato nel 2017 dall’artista Zed1 e diventato famoso per il movimento di cittadini e artisti che, qualche anno dopo, aveva convinto l’amministrazione comunale a “salvare” l’opera dal rischio di copertura, parziale, dovuta al proliferare di grandi manifesti pubblicitari già presenti sulla stessa parete.

Quarta tappa: Affori, un altro quartiere molto interessante per la street art, a cominciare dal grande dipinto che si staglia subito fuori dalla fermata della M3 di Affori Centro, firmato dal duo creativo Nabla e Zibe. Vicino all’ingresso del parco di Villa Litta, all’angolo tra via Osculati e via Cialdini, troviamo invece un bellissimo murale dello stesso Etsom, «Out of the comfort zone» (altro tema molto affine alla pratica yoga), che indaga il rapporto tra uomo e natura.

Puoi seguire il mio itinerario, oppure costruirti il tuo e magari, perché no, segnalarcelo. Online si trovano moltissime guide della street art milanese: tra quelle che mi sembrano più complete e interessanti (anche per l’approccio critico adottato), mi sento di consigliarti quelle dei siti disagian.it e di streetartmilano.it.

Buona passeggiata!

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