Raccontare l’invisibile

18 Giu 2025

Ascolta l’articolo letto da Marianna

L’essere umano è condannato a essere libero.
– Jean Paul Sartre

«Da oggi mi chiamo Margherita».
Fu così che all’età di 4 anni comunicai a mia mamma che avrei cambiato nome.
All’inizio non fui presa molto sul serio ma, dopo tanti silenzi e qualche lavoretto firmato con orgoglio Margherita, la mia famiglia e le mie maestre si arresero, e Margherita fu il mio nome fino alle elementari.
Non ricordo perché ripresi a chiamarmi Marianna, ma mi piace pensare che mi fosse bastato sapere che se volevo potevo cambiare identità, essere qualcosa che la mia famiglia e la società non avevano deciso per me, che potevo scegliere chi essere.

Questo articolo parla di parole: di parole che disegnano confini e di confini superati proprio grazie alle parole.

La nostra è una civiltà basata sul linguaggio e, molto probabilmente, è proprio lo sviluppo di un linguaggio complesso che le ha consentito di diventare ciò che è oggi. Così almeno sostiene Yuval Noah Harari che, nel suo libro Sapiens. Da animali a dèi, individua come momento di svolta decisivo per il successo della nostra specie proprio il passaggio da un linguaggio utilizzato solo per per comunicare informazioni pratiche, tipo “attenti al lupo”, a un linguaggio usato per comunicare cose invisibili: miti e credenze, dei e spiriti, diritti umani e confini nazionali.

Secondo questa teoria, ci siamo evoluti perché abbiamo cominciato a immaginare e raccontare l’invisibile, e facendolo abbiamo creato la realtà in cui vivere.

Anni fa, studiando per un esame di Filosofia politica, mi aveva fatto riflettere scoprire che nel cinese tradizionale non esisteva una parola equivalente al concetto giuridico odierno di “diritto individuale”. Il termine cinese che oggi si può tradurre con “diritto” – 权利 quánlì – ha iniziato a far parte del linguaggio comune solo dopo esser stato adottato nella traduzione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948.

Forse è da lì che nasce la mia fascinazione per le parole o espressioni nuove che vengono create per rispondere a nuove esigenze comunicative, per descrivere nuove realtà e al tempo stesso cambiarle. Ovvero i neologismi.

Vera Gheno, nel suo libro Grammamanti, sottolinea che la nascita di neologismi è indice di una lingua sana e viva e che grazie alle parole nuove possiamo immaginare modi diversi di pensare e relazionarsi e, così facendo, costruire il futuro.

Credo che nessun ambito sia così ricco di neologismi come quello della riflessione sull’identità di genere. Per poter nominare nuove esperienze e riconoscere vissuti prima ignorati, infatti, si è resa necessaria l’adozione e la creazione di moltissime parole nuove, come transgender e cisgender, pansessuale e bisessuale, gender fluid e queer, per nominarne solo alcuni.

Questi termini non si limitano a descrivere differenti identità di genere o orientamenti sessuali, ma sono uno strumento politico e culturale per costruire uno spazio più giusto, più libero e più vero.

Forse non ci hai mai pensato, ma la definizione di yoga che ha avuto più successo, ovvero quella di Patañjali che recita yogacittavṛttinirodhaḥ – yoga è lo spegnimento delle fluttuazioni mentali – è essa stessa un neologismo. Le parole yoga, citta (mente), vṛtti (fluttuazioni) e nirodhaḥ (spegnimento), esistevano già, solo non erano mai state messe insieme.
Ma questo non significa sminuire il lavoro di Patañjali, anzi, è proprio qui che risiede il suo genio: nella sua capacità di studiare e assimilare una vasta tradizione, di interpretare le esigenze della sua epoca e poi di offrire una sintesi originale destinata a durare nei secoli.

Il testo di Patañjali è senza tempo anche perché è volutamente oscuro e questo gli consente di essere interpretato e adattato continuamente alle esigenze delle diverse epoche storiche e delle diverse tradizioni di pensiero. Proprio la sua indefinitezza lo rende immortale.

E come il testo, così anche la parola yoga sfugge alle definizioni: può infatti significare tanto unione quanto separazione, essere al tempo stesso mezzo e fine, evocare sia la pace che la lotta.

Forse è per questo che mi sono innamorata della parola Queer, sempre che di una parola ci si possa innamorare. Quando ho letto la definizione che ne dà Michela Murgia nel libro Dare la vita, ho pensato che in quella parola c’era il seme del mondo che vorrei.

Prima che tu mi prenda per matta, ecco cosa scrive Murgia: essere queer significa scegliere “di abitare sulla soglia delle identità”, senza rinchiudersi in una sola definizione, rimanendo liberə di esprimere, ogni volta, l’identità che ci fa sentire più felici.
In questa visione, la queerness è una “pratica di frontiera”, un modo di vivere che rifiuta le definizioni fisse e i binarismi imposti dalla società, che accoglie l’indeterminatezza come parte integrante dell’essere umano.

E ora che hai letto queste parole, non pensi anche tu che sarebbe meraviglioso un mondo queer in senso ampio? Un mondo in cui non c’è bisogno di definirsi, in cui le identità sono fluide e la terra è senza confini? Un mondo in cui i bagni e gli spogliatoi sono gender free e in cui a carnevale mio nipote può vestirsi sia da principessa che da uomo ragno. Un mondo dove avere il pene o la vagina conta come avere una voce bassa o le spalle larghe.

Pensi che io sia folle?

Una volta Gio di Maggio, dopo una intervista a un imprenditore di successo, citò una sua frase che mi rimase impressa: se avessi fallito avrebbero detto che ero pazzo, ora che ho avuto successo mi chiamano visionario.

Forse oggi pensi di essere folle a sognare un mondo queer, ma quando la realtà che sogniamo sarà raccontata e nominata da così tante persone da diventare realtà, allora, ci chiameranno visionarie.

Save the date: Milano Pride 28 giugno 2025, non solo per folli visionari.

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