Le virtù di un guerriero

10 Dic 2021

Le virtù di un guerriero Le virtù di un guerriero

Prima che Shiva fosse addomesticato da Parvati, che lo trasformò da selvaggio eremita con la testa piena di dreadlock in giudizioso capofamiglia, il dio era sposato con Sati, figlia del re Daksha.

Daksha era un uomo molto devoto e un po’ all’antica: il suo compito era presiedere a rituali e cerimonie, assicurandosi che ogni cosa fosse eseguita nel modo corretto. Figuriamoci se un tipo così metodico e tradizionalista, a quei tempi per di più, poteva accogliere di buon grado l’idea di ritrovarsi come genero quello scapestrato di Shiva, con i suoi capelli rasta, il corpo ricoperto di cenere, il suo pessimo gusto in fatto di vestiti, il suo stile di vita un po’ vagabondo, sempre in giro con compagnie discutibili (fantasmi, folletti, cani randagi), quando non era seduto a meditare su in montagna, senza ambizioni materiali né interesse per la celebrazione dei riti.

Perciò, quando la figlia gli annunciò di volersi sposare con quel capellone perdigiorno, Daksha si oppose con tutte le sue forze, ma non riuscì a fermare le nozze. Decise allora di fargliela pagare, a quel frikkettone presuntuoso che si credeva chissà chi. Organizzò una imponente yagya (una cerimonia sacrificale che dura più giorni), invitando tutte le divinità del Pantheon indiano a ricevere le offerte, tranne Shiva, e si dice che passò il tempo a gettare discredito su lui e sulla figlia.

Sati venne ovviamente a saperlo, e in un primo momento cercò di minimizzare la cosa con il marito, conoscendone il carattere permaloso e impulsivo, ma poi si recò personalmente dal padre, decisa a vendicare il torto subito. Irruppe nell’aula sacrificale e minacciò di offrire se stessa a Shiva, gettandosi nel fuoco, se Daksha non avesse rimediato all’offesa. Ma lui, testardo, fu irremovibile e Sati si lanciò tra le fiamme.

Shiva, pur essendo rimasto sulle montagne a meditare, si rese conto della morte della sua amata nel momento stesso in cui avveniva. Ne rimase sconvolto: iniziò a urlare e agitarsi, fino a strapparsi una grossa ciocca di capelli, che scagliò a terra.

E da quella ciocca prese forma un guerriero terribile e glorioso, Virabhadra, l’avatar di Shiva destinato a vendicare gli innocenti.

Con un esercito di cani, fantasmi e folletti, raggiunse il luogo in cui Daksha stava continuando la cerimonia, come se nulla fosse accaduto. E mentre i suoi soldati facevano a pezzi ogni cosa, terrorizzando e facendo fuggire gli invitati, Virabhadra tagliò la testa di Daksha, scagliandola lontano.

Shiva, tuttavia, è terribile ma è anche giusto. È iracondo ma è anche benevolo. È il dio che distrugge ma che poi ricompone. Una volta placati la sua rabbia e il suo dolore per la perdita della moglie amatissima, il dio ebbe pietà di Daksha e si rese conto che tagliargli la testa era stato un gesto inutile: non avrebbe riportato in vita Sati né avrebbe reso più sopportabile la sua mancanza. Decise perciò di rimediare e ridargli la sua testa, ma per quanto le cercassero, nessuno riuscì a ritrovarla. Perciò Shiva prese un’anatra e la sgozzò, mettendo la sua testa sul collo di Daksha.

Questa storia ha un lieto fine, che vi abbiamo già raccontato in un post precedente: Sati si reincarnò nei panni di Parvati, sposò Shiva e tutti (più o meno) vissero felici e contenti.

Nella pratica yoga incontriamo tre posture dedicate a Virabhadra: la prima raffigura il terribile guerriero nel momento in cui si erge da terra, prendendo forma dal dreadlock di Shiva. La seconda lo rappresenta nell’atto di tagliare la testa di Daksha. La terza, infine, simboleggia Virabhadra mentre getta lontano il capo del suocero oppure, secondo alcuni studiosi, mentre gli rimette al collo la testa di un’anatra. Tutte richiedono grande controllo, forza, fierezza e stabilità. Sono queste le virtù di un guerriero indomito, ma giusto. Quel controllo che a Shiva per un attimo è mancato, ma che ha subito saputo ricomporre. Come un bravo yogi dovrebbe aspirare a fare.

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