Gli sguardi sono corpi
26 Maggio 2022
Scopri di piùTutte le volte che sali sul tappetino e fai delle posizioni, gli Asana, stai praticando Hatha Yoga.
Ebbene si, l’Ashtanga, il Vinyasa, l’Iyengar e anche il più recente Yin Yoga, non sono altro che branche dell’Hatha Yoga.
L’Hatha Yoga non è quindi, per definizione, uno Yoga soft come oggi viene inteso, anzi, ti dirò di più: Hatha letteralmente significa forza o, addirittura, violenza!
Si perché, per trascendere l’esistenza materiale, scopo dello Yoga come vedremo più avanti, bisogna forzare la fisiologia ordinaria.
Impariamo a stare in posizioni che sono oggettivamente innaturali, si pensi a quelle sulle braccia o sulla testa, impariamo ad allungare o trattenere il respiro controllando l’istinto, impariamo a contrarre alcune aree del corpo per esercitare una pressione su determinati organi.
Lo facciamo perché ne sentiamo i benefici, ovviamente, ma rimane che lo sforzo, un corretto sforzo, è tutt’altro che marginale in questa pratica.
Viene quindi spontaneo chiederci: perché, al giorno d’oggi, ci sono pratiche indicate come Hatha se con questo nome ci riferiamo a tutti gli stili di Yoga che lavorano con il corpo?
E perché, spesso, si usa questo nome per indicare uno stile soft e alla portata di tutti?
Per rispondere a queste domande, dobbiamo prima fare ordine e capire quando nasce l’Hatha Yoga e il suo rapporto con lo Yoga Classico, il Raja Yoga di Patanjali.
Lo Yoga Classico e l’Hatha Yoga
Nella tradizione indiana è centrale l’aspirazione alla liberazione dalla realtà esistenziale, concepita come dolorosa, che condanna l’uomo a vivere in un perpetuo ciclo di nascita, morte e rinascita: il samsara. La pratica dello Yoga è il mezzo per spezzare questo ciclo e raggiungere la liberazione: il moksa.
Ma se il fine dello Yoga è unico, il metodo è multiforme.
Con Yoga Classico si intende quello sistematizzato nell’opera di Patanjali, gli Yoga Sutra, risalente, per la tradizione, al III secolo a.c., anche se è più probabile che Patanjali sia vissuto tra il IV e il V d.c.
In questo testo viene descritto il percorso dello Yoga, per raggiungere la liberazione, in otto passi: Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana e Samadhi.
Qui l’Asana viene inteso come posizione seduta, funzionale al Pranayama e alla meditazione, e a esso vengono dedicati solo tre aforismi su 194. Sarà successivamente Vyasa, il più importante tra i commentatori di questo testo, a elencare 12 posizioni, prendendo probabilmente spunto dai testi di Hatha Yoga.
L’Hatha Yoga, con le varie posizioni, arriva molto dopo Patanjali, si stima intorno al XI secolo, con Gorakhnath, ritenuto il suo fondatore, che apprese i segreti dello Yoga da Matsyendra che, a sua volta, secondo un bellissimo mito, li apprese da Shiva in persona. Ma per avere un testo di riferimento dobbiamo aspettare altri tre secoli: come vedi, lo Yoga che pratichiamo ha un’origine relativamente recente.
Il primo testo associato a questa branca dello Yoga è l’Hathayoga Pradipika, “La lucerna dello Hatha Yoga”, del XV secolo, strutturato in quattro capitoli, uno dei quali dedicato interamente ai diversi Asana. Per la prima volta nella storia dello Yoga, troviamo la descrizione di alcune posture, 15 per la precisione, considerate necessarie per preparare il corpo e la mente alla pratica della meditazione. Gli altri tre capitoli trattano invece di Pranayama(tecniche di respirazione), Mudra (gesti delle mani) e Samadhi (la liberazione), obiettivo di ogni praticante di yoga.
Questo testo, che non deve mancare nella libreria di uno Yogi, si apre con una dichiarazione estremamente importante: l’Hatha Yoga è la scala che serve per raggiungere il Raja Yoga. Questi due Yoga non sono quindi alternativi ma funzionali l’uno all’altro.
Altri due testi sono fondamentali per questa tradizione: la Gheranda Samhita, “La raccolta di Gheranda”, del XVI-XVII secolo, che descrive ben 32 asana e 25 Mudra, e la Shiva Samhita, ovvero “La collezione di Shiva”, del XVII secolo, che si presenta come la rivelazione di Shiva in persona, il quale racconta gli insegnamenti dello yoga a sua moglie Parvati.
La pratica degli Asana, così come la conosciamo oggi, nasce e si sviluppa con questi testi; l’Hatha Yoga, che abbiamo detto significa lo Yoga della forza, si distingue dallo Yoga Classico perché comprende, appunto, anche lo sforzo fisico che avviene attraverso la pratica delle posizioni, una pratica che negli anni è stata arricchita da vari maestri, secondo un fil rouge, che lega ogni praticante di Yoga al primo tra tutti: Shiva.
Nel corso degli anni ci sono stati insegnanti di Hatha Yoga che hanno affinato il proprio stile rendendolo sempre più connotato e identificabile. Quando il loro metodo è stato particolarmente efficace i discepoli sono aumentati dando origine a una scuola, a una specifica disciplina.
Sono nate così le diverse scuole di Yoga: l’Iyengar, l’Ashtanga, il Satyananda o lo Yin Yoga. Le pratiche che non si rifanno a un particolare maestro o scuola, ma si inseriscono comunque in questa tradizione, si definiscono Hatha Yoga. In particolare, oggi, Hatha indica uno stile di Yoga alla portata di tutti dal punto di vista fisico, in cui gli Asana possono essere mantenuti a lungo e accompagnati da Pranayama, Mantra (vocalizzazioni), e Mudra.
Torniamo alla domanda: perché si usa il termine Hatha per indicare uno stile soft?
Bhè, credo sia semplicemente un uso che si è consolidato con il tempo: ci capiamo e va bene così! Ma quando si pratica Yoga da un po’ credo sia giusto conoscere il contesto in cui ci muoviamo, la tradizione che contribuiamo a portare avanti.